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L’antico mito del sacrificio e la nuova dea resilienza: virtù o trappole?

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Autrice: Giulia Anzani

Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, 

a presentare i vostri corpi come un sacrificio vivente, 

santo e gradito a Dio, che è il vostro culto spirituale.

— Romani 12:1

Le radici del concetto di sacrificioaffondano in profondità nella cultura occidentale, da sempre permeata da ideali che spesso celano complessità e contraddizioni. Nella tradizione cristiana, il sacrificio di Cristo sulla croce è celebrato come il culmine dell’amore e della redenzione, atto che è stato esaltato nel corso della storia come segno di grande forza e devozione, un gesto che ha definito la narrazione di salvezza e la pratica della fede per oltre due millenni. 

Tuttavia, l’idealizzazione del sacrificio può nascondere insidie significative, specialmente quando questo si traduce in pratiche che compromettono il benessere individuale. Ancora oggi, nel contesto contemporaneo, il sacrificio è preso come metro di misura per valutare la grandezza, la statura morale, i valori di una persona. Tuttavia questa spinta estrema a dimostrare la propria capacità di sacrificio può, in alcuni casi, portare al burnout [1].

Il sacrificio come valore assoluto rischia di far ignorare le reali necessità individuali e di spingersi a sacrificare troppo, fino a compromettere l’equilibrio psicofisico. Renata Salecl [2]  nel suo “Paradoxe of Happiness”, ha studiato come l’idealizzazione del sacrificio e della dedizione possa portare a un pericoloso compromesso del benessere culturale. È essenziale riflettere criticamente su come questo concetto influisca sulla nostra vita quotidiana e su come trovare un equilibrio tra la dedizione a ciò che amiamo e il mantenimento di un sano benessere personale.

Similmente potrebbe essere tossico è il moderno concetto di resilienza, spesso dipinto come la chiave per superare le avversità e raggiungere il successo, può rivelarsi una trappola insidiosa. La resilienza è definita come “capacità di resistere, fronteggiare e adattarsi positivamente a eventi traumatici, stressanti o avversità” [3] e, sebbene sembri una qualità, può risultare fuorviante se non considerata nel contesto della plasticità cerebrale

La plasticità cerebrale, o neuroplasticità, è “la capacità del cervello di modificare la propria struttura, la propria funzione e le sue connessioni e adattarsi agli stimoli a cui è sottoposto” [4] in risposta alle esperienze e agli stimoli ambientali

Ogni esperienza che viviamo modifica il nostro cervello, modificando e creando sinapsi. Questo processo di adattamento e cambiamento dimostra che non siamo semplicemente resilienti, ma il nostro cervello è in continua evoluzione. 

Studiosi come Norman Doige [5] nel suo libro “The brain that changes itself” hanno documentato come il cervello non solo risponda ma anche si adatti e si rimodelli continuamente in risposta alle esperienze. La resilienza, quindi, non dovrebbe essere come una qualità statica ma come una manifestazione delle capacità del cervello di adattarsi e cambiare. 

È interessante anche prendere in considerazione il concetto di antifragilità di Nassim Nicholas Taleb [6], elaborato nel suo “Antifragile: things that gain from disorder”, che propone una prospettiva alternativa e più dinamica. Mentre la resilienza si limita a sopportare e resistere, l’antifragilità utilizza lo stress e le difficoltà per diventare più forte e adattarsi meglio. Un approccio, questo, che suggerisce che la vera forza non risieda semplicemente nella resistenza passiva ma nella capacità di crescere e trasformarsi attraverso le avversità.

Fondamentale è considerare come la resilienza sia spesso utilizzata per giustificare la mancanza di supporto strutturale e istituzionale: nel dibattito sulla salute mentale [7], ad esempio, la resilienza è promossa come una qualità necessaria per superare le difficoltà. Tuttavia, quest’enfasi può portare a un’interpretazione tossica: l’adattamento è un fallimento e una colpa personale, non il risultato di circostanze più o meno favorevoli o di un supporto più o meno adeguato.

In conclusione, il sacrificio e la resilienza possono essere visti come trappole culturali che giustificano il superamento delle avversità a spese del nostro benessere. Le critiche contemporanee alla resilienza, come quelle sollevate da Irene Brown [8]nel libro “Rising Strong” mettono in evidenza come la pressione a essere resilienti possa portare a una forma di negazione del dolore e delle difficoltà reali, senza considerare le vere esigenze di equilibrio e crescita personale.

Sia il mito del sacrificio che il moderno culto della resilienza potrebbero essere pericolosi se non analizzati criticamente, arrivando a legittimare la sofferenza come condizione inevitabile o addirittura positiva, senza considerare le reali esigenze di equilibrio e crescita personale. 

La vera evoluzione si trova nel riconoscere e abbracciare i combattimenti che la vita ci presenta, piuttosto che cercare di aderire a idealogie che, sebbene appaiano virtuosi, spesso nascondono insidie per il nostro benessere.

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[1] L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha ufficialmente riconosciuto il burnout come una sindrome legata al lavoro nella Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD-11). Questo riconoscimento sottolinea come l’eccessivo sacrificio personale e professionale possa portare a gravi conseguenze sulla salute mentale e fisica. (Da “Burn-out an ‘occupational phenomenon’: International Classification of Diseases”).

[2] Renata Salecl, filosofa e sociologa slovena, è celebre per i suoi studi su diritto, psicanalisi e cultura contemporanea. 

[3] Definizione tratta da: Dizionario Treccani.

[4] Definizione tratta da: fisioscience.it 

[5] Norman Doige, psichiatra, psicanalista e ricercatore canadese. È conosciuto per i suoi studi sulla neuroplasticità. 

[6] Nassim Nicholas Taleb, filosofo, matematico e analista del rischio libanese-americano. Ha sviluppato il concetto di antifragilità.

[7] Il dibattito sulla salute mentale risale al XIX secolo, con lo sviluppo della psichiatria moderna e la progressiva attenzione alle condizioni psicologiche individuali. Negli ultimi decenni, questo dibattito si è ampliato, includendo la discussione sulla resilienza e il ruolo delle strutture sociali e istituzionali nel rapporto alla salute mentale.

[8] Brené Brown, ricercatrice e professoressa presso l’Università di Hudson, è nota per i suoi studi sulla vulnerabilità e il coraggio. 

(disegno da AIAMC)

Pubblicato su www.agenziaradicale.com il 1° settembre 2024

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